Leonardo Volpi

Pesatura, Confezionamento Prodotti Alimentari, Etichettatura e Metrologia Legale.

Leonardo Volpi

Nel mondo della GDO, e soprattutto nel settore alimentare, ci si concentra spesso su prezzi, promozioni, grammature e posizionamento a scaffale. Ma c’è una variabile che ancora oggi viene sottovalutata, pur avendo un impatto decisivo sulle scelte d’acquisto: il packaging e l’etichettatura.

Parlando da professionista che ogni giorno lavora sul confine tra contenuto e contenitore, vi posso dire una cosa con certezza: le persone non fanno la spesa con la calcolatrice in mano. La fanno con la pancia, con gli occhi, con l’istinto. Il packaging e l’etichettatura, è il primo filtro emotivo tra un prodotto e il consumatore.

Secondo Guendalina Graffigna, docente di Psicologia dei consumi all’Università Cattolica, «non c’è mai un calcolo preciso e razionale basato sulla matematica. Le scelte si fondano su una valutazione approssimativa di ciò che ci sembra sufficientemente buono».
In altre parole, la razionalità arriva dopo, quando arriva. Prima c’è la percezione.

E qui entra in gioco il fenomeno della shrinkflation: stessa confezione, minor contenuto. Ma se il packaging resta invariato, nella dimensione e nel design, chi si accorge della differenza? Quasi nessuno. E non per disattenzione, ma per un meccanismo naturale: l’involucro comunica continuità, rassicurazione, familiarità. Se il “vestito” è lo stesso, il prodotto sembra lo stesso.

Questo, da un lato, ci fa capire quanto il packaging sia potente. Dall’altro, impone una riflessione etica e strategica alle aziende: possiamo davvero permetterci di trattare il packaging solo come “contenitore”?

Il design è codice. Il colore è linguaggio.

Nel packaging, niente è casuale. Il bianco comunica purezza o neutralità (non a caso è usatissimo nel farmaceutico), il verde richiama il naturale, il giallo e l’azzurro sono quasi “obbligatori” per pasta e farine. Ogni settore ha i suoi codici impliciti. E ogni deviazione da questi codici ha un significato – che può attrarre o disorientare.

Chi lavora nel marketing lo sa bene, ma chi si occupa di progettazione e produzione del packaging deve iniziare a pensare in questi termini. Non stiamo solo stampando scatole, etichette o film. Stiamo disegnando interfacce emotive.

Consumatori consapevoli? Solo a tratti.

È vero che oggi il consumatore è più informato, più “sgamato”. Ma lo è solo quando percepisce un rischio d’errore. Su un elettrodomestico ci studia. Su un biscotto, no.
E proprio lì, nelle scelte ripetitive, entra in gioco tutta la forza (o la debolezza) del nostro packaging. Perché se è vero che la spesa è ancora, in molti casi, “sopra pensiero”, è altrettanto vero che esistono prodotti con un fortissimo valore identitario: biologico, proteico, sostenibile.

Su quei prodotti, l’emozione batte la logica. E il packaging diventa attivatore di significati.

Il packaging come leva di posizionamento psicologico.

Nel 2025 il consumatore non cerca più solo “qualità”, ma significato. Vuole sentirsi capace, centrato, coerente con il proprio stile di vita. Vuole che il prodotto sia un alleato nella costruzione del suo progetto personale. E questo vale per tutto: dal caffè che promette energia, allo snack che “non fa sentire in colpa”.

E quindi mi rivolgo a voi, brand manager, marketing director, direttori di produzione:
il packaging non può più essere l’ultima voce del processo.
Va pensato fin dall’inizio, in sinergia con la strategia di posizionamento, i valori del marchio, il comportamento d’acquisto reale.

In un mercato dove la fiducia è fragile, il packaging è la nostra prima (e spesso unica) occasione per generare connessione.

Perché alla fine, sì: la gente compra per essere felice. Ma prima di tutto compra quello che sembra renderla felice.

E quel “sembra”, nella maggior parte dei casi, lo costruiamo noi.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *